Gli Araldi dell’Aurora
NABIL
casa editrice Bahà’ì, volume della comunità Bahàì dal 1800 al 1853
gli araldi dellaurora
1^ ed. italiana 1978 – © 1978 – casa editrice Bahà’ì
titolo orignale: “The Dawn-Breakers”
1^ edizione 1932
pag. 631
INTRODUZIONE
Il Movimento Bahá’ì è ora ben noto in tutto il mondo ed è giunto il momento in cui l’impareggiabile narrazione delle sue origini nella tenebrosa Persia, scritta da Nabil, può interessare molti lettori. La documentazione che egli annotò con si devota cura è sotto molti aspetti straordinaria. Essa contiene alcuni brani commoventi e lo splendore del tema centrale conferisce alla cronaca non solo un grande valore storico ma anche un’alta forza morale. Le sue luci sono forti; e questo effetto è più intenso poiché esse appaiono come uno sprazzo di sole nel cuore della notte. È una storia di lotta e di martirio; le scene violente, gli episodi tragici abbondano. La corruzione, il fanatismo e la crudeltá fan lega contro la causa della riforma per distruggerla e questo volume si conclude nel momento in cui pare che un’orgia di odio abbia raggiunto io scopo e cacciato in esilio o messo a morte ogni uomo, donna e bambino in Persia che osasse mostrare apertamente un’inclinazione verso l’insegnamento del Báb.
Nabil, il quale partecipò di persona ad alcune delle scene che racconta, impugnò la sua penna solitaria per narrare la veritá su uomini e donne cosi spietatamente perseguitati e su un movimento così gravemente calunniato.
Egli scrive con facilitá e nei momenti di grande emozione il suo stile si fa vigoroso e penetrante. Non presenta in modo sistematico le asserzioni e l’insegnamento di Bahá’u’lláh e del Suo Precursore, ma intende semplicemente rievocare le origini della Rivelazione Bahá’ì e tramandare il ricordo delle gesta dei suoi primi paladini. Narra una serie di episodi, citando minuziosamente la fonte quasi per ogni argomento d’informazione. Di conseguenza la sua opera, anche se meno artistica e filosofica, acquista valore come racconto esatto di ciò che egli sapeva, o era riuscito a scoprire da testimoni degni di fede, sulla storia più remota della Causa.
I protagonisti del racconto (la santa eroica figura del Báb, capo mite e sereno, eppure cosi ardente, risoluto e dominante; la devozione dei Suoi seguaci che affrontano l’oppressione con coraggio indomito e spesso con estasi; la rabbia di un clero geloso, che accende per i propri scopi le passioni di una plebe assetata di sangue) – parlano un linguaggio che tutti possono capire. Ma non è facile seguire la narrazione nei suoi dettagli o comprendere quanto fosse enorme il compito assunto da Bahá’u’lláh e dal Suo Precursore, senza qualche cognizione sulle condizioni della chiesa e dello stato in Persia e sui costumi e sulla mentalitá del popolo e dei suoi padroni. Nabil dette per scontate queste nozioni. Aveva viaggiato poco o niente fuori dai confini degl’imperi dello Sciá e del Sultano e non pensò a fare paragoni tra la sua civiltá e le civiltá straniere. Egli non si rivolgeva al lettore occidentale. Benché si rendesse conto che il materiale che aveva raccolto rivestiva un’importanza più che nazionale o islamica e che in non molto tempo esso si sarebbe diffuso sia in occidente sia in oriente fino a circolare per tutto il globo, era tuttavia un orientale e scriveva in una lingua orientale per coloro che usavano quella lingua e l’impareggiabile lavoro che così accuratamente eseguì era giá in sé stesso un’impresa grande e faticosa.
Esiste comunque in inglese una letteratura sulla Persia del diciannovesimo secolo che può fornire al lettore occidentale ampie informazioni sull’argomento. Da scritti persiani giá tradotti o da libri di viaggiatori europei, quali Lord Curzon, Sir J. Malcolm e non pochi altri, si può desumere un quadro fedele e vivo, anche se sgradevole, delle condizioni improbe che il Báb dovette affrontare quando inaugurò il Movimento alla metá del diciannovesimo secolo.
Tutti gli osservatori sono concordi nel rappresentare la Persia come una nazione debole e arretrata, spaccata all’interno da pratiche corrotte e da feroci bigottismi. L’inefficienza e la viltá, frutti della decadenza morale, riempivano il paese. Tanto tra i potenti quanto tra gli umili, non solo mancava la capacitá di portare a termine metodi di riforma, ma non c’era nemmeno una seria volontá d’iniziarli. L’orgoglio nazionale predicava un grandioso autocompiacimento. Una cappa d’immobilismo copriva ogni cosa e una paralisi mentale collettiva rendeva impossibile ogni sviluppo.
Allo studioso di storia la decadenza d’una nazione un tempo cosi potente e illustre appare estremamente pietosa. ‘Abdu’l-Bahá, che nonostante le crudeltá inflitte a Bahá’u’lláh, al Báb e a Lui Stesso, amava tuttavia la Sua terra, chiamò questa degradazione “la tragedia di un popolo” e nell’opera “The Mysterious Forces of Civilization” in cui cercò d’incitare il cuore dei Suoi compatrioti a intraprendere riforme radicali, espresse un toccante lamento sulla sorte di una nazione che un tempo aveva esteso le proprie conquiste in oriente e in occidente ed era stata faro di civiltá tra gli uomini. “Nei tempi passati a, Egli scrive, “La Persia fu veramente il cuore del mondo e brillò tra le nazioni come una fiaccola accesa. La sua gloria e la sua prosperitá apparvero all’orizzonte dell’umanitá come l’aurora diffondendo la luce della conoscenza e illuminando le nazioni dell’oriente e dell’occidente. La fama dei suoi re vittoriosi giunse alle orecchie degli abitanti delle regioni più remote della terra. La maestá del suo Re dei Re umiliò i monarchi di Grecia e di Roma. La sua saggezza nel governare colmò di rispetto i saggi, e i governanti dei continenti modellarono le proprie leggi sulla sua politica. I Persiani eccelsero tra le nazioni della terra come popolo di conquistatori e furono giustamente ammirati per la loro civiltá e cultura; pertanto il loro paese divenne un centro glorioso di tutte le scienze e le arti, una miniera di cultura e una fonte di virtù… Come mai questo eccellente paese, oggi, a causa della nostra indolenza, vanitá e indifferenza, per la mancanza di conoscenze e d’organizzazione, per la scarsitá di zelo e ambizione nel suo popolo, sopporta che i raggi della sua prosperitá siano oscurati e quasi estinti? “.
Altri scrittori descrivono dettagliatamente le infelici condizioni a cui ‘Abdu’l-Bahá si riferisce.
Al tempo in cui il Báb dichiarò la Sua Missione, il governo del paese era, con le parole di Lord Curzon, “uno stato teocratico a…… Pur essendo venale, crudele e immorale, era formalmente religioso. L’ortodossia islamica era la sua base e permeava fino al midollo sia lo stato sia la vita sociale del popolo. Ma per il resto non esistevano leggi, statuti o costituzioni che guidassero la direzione degli affari pubblici. Non c’erano né Senato, né Consiglio della Corona, né Sinodo, né Parlamento. Lo Sciá era un despota e il suo arbitrario modo di governare si rifletteva lungo la scala ufficiale, in ogni ministro o governatore, fino al più umile impiegato e al più remoto capotribù. Non esisteva alcun tribunale civile che controllasse o modificasse il potere del monarca o l’autoritá che egli decidesse di delegare ai suoi subordinati. Se una legge c’era, questa era la sua parola. Egli poteva fare quel che gli pareva. Era suo diritto nominare o destituire qualsiasi ministro, funzionario, ufficiale e giudice. Aveva potere assoluto di vita e di morte su tutti i membri, tanto civili quanto militari, della sua famiglia e della sua corte. Il diritto di togliere la vita apparteneva solo a lui; e così era per tutti i poteri dello stato: legislativo, esecutivo e giudiziario. Le sue prerogative regali non erano limitate da alcuna restrizione scritta.
I discendenti dello Sciá erano sistemati nei posti più remunerativi del paese e con il succedersi delle generazioni occuparono anche posti minori, dappertutto, finché il paese non fu oppresso da questa genìa di fannulloni regali che dovevano la loro posizione solamente al loro sangue e dai quali ebbe origine l’adagio persiano che dice: “Cammelli, pulci e principi esistono dappertutto”.
Per uno Sciá era difficile prendere una decisione giusta e saggia su un caso sottoposto al suo giudizio, perfino quando desiderava farlo, perché non si poteva fidare delle informazioni che gli venivano date. Elementi determinanti potevano essere nascosti, o i fatti esposti potevano essere distorti dall’influenza di testimoni interessati o di ministri venali. In Persia il sistema di corruzione era giunto a tal punto da essere divenuto un’istituzione riconosciuta, che Lord Curzon descrive con le seguenti parole:
“Tratterò ora quella che è la caratteristica basilare e distintiva dell’amministrazione iraniana. Si può dire che il governo, anzi, la vita stessa della nazione, consistano per lo più in uno scambio di doni. Nel suo aspetto sociale si potrebbe supporre che questa pratica comprovi i sentimenti generosi di un amabile popolo; benché anche da questo punto di vista essa presenti lati freddi e sgradevoli come quando, per esempio, mentre vi rallegrate in cuor vostro per aver ricevuto un dono, trovate che dovete non solo contraccambiare facendo al donatore un regalo di costo equivalente, ma anche ricompensare generosamente il latore del dono (per il quale la vostra ricompensa è molto verosimilmente l’unico mezzo riconosciuto di sussistenza) in misura proporzionale al valore pecuniario del dono stesso. Nel suo aspetto politico, l’uso di far doni, benché consacrato nelle adamantine tradizioni dell’Oriente, è un sinonimo del sistema descritto altrove con nomi meno gradevoli. È il sistema secondo il quale la Persia è stata governata per secoli e il cui mantenimento oppone una robusta barriera a qualsiasi reale riforma. Dallo Sciá in giù, non v’è funzionario che non sia disponibile a regali, non v’è posto che non sia conferito in cambio di un dono, non v’è rendita che non sia stata accumulata per mezzo di doni ricevuti. Salvo pochissime eccezioni, tutti i componenti della gerarchia ufficiale sopra menzionata hanno semplicemente comperato la propria posizione con un regalo pecuniario offerto o allo Sciá o a un ministro o al governatore superiore dal quale sono stati nominati. Se ci sono molti candidati a un posto, con ogni probabilitá vincerá quello che fa la migliore offerta.
” … Il ‘madakhil’ è un’istituzione nazionale mantenuta viva in Persia, la riscossione della quale, in una miriade di forme differenti, la cui ingegnositá è pari solo alla loro molteplicitá, è per i Persiani il supremo interesse e la somma delizia di tutta una vita. Questa straordinaria parola, di cui Watson dice che non v’è un preciso equivalente in inglese, può essere variamente tradotta come: commissione, gratifica, regalia, provvigione, ruberia, lucro, secondo il contesto del discorso in cui è usata. In parole povere essa indica quel tanto di vantaggio personale, usualmente espresso in moneta, che può essere estorto da qualsiasi transazione. Un negoziato, in cui due parti siano coinvolte come donatore e beneficiano, come superiore e subordinato o anche come agenti contraenti alla pari, non può aver luogo in Persia senza che la parte che può essere presentata come autrice del favore o del servizio pretenda e riceva una definita ricompensa in denaro per quanto ha fatto o dato. Si può certo dire che la natura umana è la stessa in tutto il mondo; che un simile sistema esiste sotto un differente nome nel nostro e in altri paesi e che il critico sereno saluterá nel Persiano un uomo e un fratello. Entro certi limiti ciò è vero. Ma in nessun paese del mondo che ho visitato o di cui ho sentito parlare, il sistema è tanto aperto, spudorato o universale come in Persia. Così, lungi dall’essere limitato alla sfera dell’economia domestica o alle transazioni commerciali, esso permea ogni passo e ispira la maggior parte delle azioni della vita. Per suo effetto, si può dire che in Persia la generositá e i favori gratuiti sono stati cancellati dal novero delle virtù sociali e la cupidigia è stata elevata a principio della condotta umana… Pertanto si stabilisce una progressione aritmetica di ruberie, dal sovrano al suddito, per cui ciascuna unitá della scala discendente prende la propria ricompensa dall’unitá successiva di rango inferiore, mentre lo sventurato contadino è la vittima finale. Non c’è da sorprendersi, in queste condizioni, se le cariche sono la via comune verso la ricchezza e se sono frequenti i casi in cui uomini, partiti dal nulla, si trovano ad abitare in magnifiche case, circondati da folle di dipendenti e a vivere da prìncipi. “Fa ciò che puoi finché puoi” è la regola che molti uomini si prefiggono entrando nella vita pubblica. E lo spirito popolare non s’indigna per questo comportamento; mentre il giudizio su chi, avendone l’opportunitá, non riesce a riempirsi le tasche, è tutt’altro che lusinghiero per il suo valore. Nessuno rivolge un solo pensiero alle vittime da cui, in ultima analisi, è stato ricavato il materiale per questi successivi ‘madakhil’, e dal sudore delle cui rassegnate fronti è stata spremuta la ricchezza che viene dissipata in lussuose case di campagna, oggetti rari provenienti dall’Europa ed enormi seguiti “.
Leggere quanto precede significa capire in parte le difficoltá della missione del Báb; leggere quanto segue significa comprendere i pericoli che Egli affrontò ed essere preparati a una storia di violenza e di atroce crudeltá.
“Prima di abbandonare l’argomento della legge persiana e della sua amministrazione, voglio aggiungere qualche parola sull’argomento delle pene e delle prigioni. Nulla è più traumatizzante per il lettore europeo, che s’inoltri nelle criminose e insanguinate pagine della storia persiana dell’ultimo e, fortunatamente in grado minore, dell’attuale secolo, delle testimonianze di punizioni selvagge e abominevoli torture, che dimostrano rispettivamente un’insensibilitá bestiale e un’ingegnositá diabolica. Il carattere persiano è sempre stato fertile di espedienti e insensibile alla sofferenza; e nell’ambito delle esecuzioni capitali ha trovato un vasto campo per mettere in pratica entrambe le doti. Fino a tempi abbastanza recenti, entro i confini dell’attuale regno, i criminali condannati a morte sono stati crocifissi, sparati da cannoni, seppelliti vivi, impalati, ferrati come cavalli, squartati legandoli alle cime di due alberi legati assieme e poi lasciati tornare alla loro posizione naturale, trasformati in torce umane, scorticati vivi.
” … Con un duplice sistema di governo, come quello di cui ho appena completato la descrizione – cioè un’amministrazione nella quale ogni attore è, da punti di vista diversi, il corruttore e il corrotto; e una procedura giudiziaria senza né leggi né tribunali – si capisce subito che la fiducia nel Governo ha poche probabilitá di esistere, che non vi è alcun senso personale del dovere o dell’onore, alcuna fiducia reciproca o cooperazione (tranne nel servire chi fa del male), alcun disonore nella delazione, alcun credito nella virtù e sopra tutto alcuno spirito nazionale o patriottismo”.
Il Báb deve avere presagito sin dall’inizio l’accoglienza che i Suoi concittadini avrebbero accordato ai Suoi insegnamenti e il destino che Lo attendeva per mano dei mullá. Ma non permise che timori personali influenzassero la franca enunciazione delle Sue affermazioni o l’aperta presentazione della Sua Causa. Le innovazioni che proclamò, anche se puramente religiose, furono drastiche, l’annuncio della Sua identitá fu sconvolgente e tremendo. Egli Si fece conoscere come il Qá’im, il Grande Profeta o Messia da lungo tempo promesso, così ansiosamente atteso dal mondo musulmano. A ciò aggiunse la dichiarazione di essere anche la Porta (cioè il Báb) attraverso la quale doveva entrare nel regno umano una Manifestazione più grande di Lui.
Mettendosi così nella linea delle tradizioni dell’Islám e apparendo quale adempimento delle profezie, Egli entrò in conflitto con coloro che, sul significato di quelle profezie e tradizioni, avevano idee fisse e intoccabili (diverse dalle Sue). Le due grandi sette persiane dell’Islam, la sciita e la sunnita, attribuivano entrambe grande importanza all’antico retaggio della loro fede, ma non erano d’accordo sul suo contenuto e sul suo valore. Gli sciiti, dalle cui dottrine sorse il Movimento Babì, sostenevano che, dopo l’ascensione del Grande Profeta Muhammad, a Lui era succeduta una linea di dodici Imém. Ognuno di questi, essi sostenevano, era stato dotato da Dio di poteri e doti speciali e aveva diritto all’assoluta obbedienza dei fedeli. Essi dovevano la loro designazione non alla scelta popolare, ma alla nomina da parte del proprio predecessore nella carica, Dodicesima e ultima di queste guide ispirate fu Muhammad, chiamato dagli sciiti “Imám Mihdì, Hujjatu’lláh [la Prova di Dio], Baqìyyatu’lláh [il Resto di Dio], e Qá’im-i-Al-i-Muhammad [Colui che sorgerá dalla famiglia di Muhammad]”. Egli assunse le funzioni di Imám nell’anno 260 dell’Egira, ma improvvisamente scomparve e comunicò con i suoi seguaci solo attraverso un intermediario scelto, noto come Porta. Quattro di queste Porte si susseguirono l’una all’altra, ciascuna designata dal predecessore con l’approvazione dell’Imám. Ma allorché i fedeli chiesero alla quarta, Abu’l-Hasan-‘Alì, di nominare il successore, prima di morire, egli si rifiutò di farlo: disse che Iddio aveva un altro piano. Alla sua morte ogni comunicazione tra l’Imém e la sua chiesa pertanto cessò. E tuttavia, circondato da un gruppo di seguaci, egli è ancora vivo e attende in un nascondiglio misterioso e non si rimetterá in contatto con il suo popolo finché non si manifesterá con tutta la sua potenza per instaurare il millennio in tutto il mondo.
I sunniti, d’altra parte, hanno un’opinione meno elevata della funzione dei successori del Grande Profeta. Essi considerano la vice-reggenza una questione pratica più che spirituale. Il Califfo è, ai loro occhi, il Difensore della Fede e deve la sua nomina alla scelta e all’approvazione del Popolo.
Per quanto importanti siano queste differenze, tuttavia, entrambe le sette concordano nell’attendere una duplice Manifestazione. Gli sciiti aspettano il Qá’im, che deve venire nella pienezza dei tempi e anche il ritorno dell’Imám Husayn. I sunniti attendono l’apparizione del Mihdì e anche “il ritorno di Gesù Cristo”. Quando, all’inizio della Sua Missione, il Báb, continuando la tradizione degli sciiti, proclamò la Sua funzione con il doppio titolo, primo di Qé’im e secondo di Porta o Báb, alcuni dei musulmani fraintesero il secondo appellativo. Essi pensarono che volesse dire di essere la quinta Porta, il successore di Abu’l-Hasan-‘Alì. Il vero significato, tuttavia, come Egli stesso chiaramente annunziò, era molto differente.
Egli era il Qé’im; ma il Qé’im, anche se Grande Profeta, era in rapporto con una Manifestazione successiva e più grande, come Giovanni Battista nei confronti del Cristo. Era il Precursore di Uno ancor più possente di Lui. Egli doveva diminuire; il Possente doveva aumentare. E come Giovanni Battista era stato l’Araldo o la Porta del Cristo, così il Báb era l’Araldo o la Porta di Bahá’u’lláh.
Vi sono molte tradizioni autentiche indicanti che il Qá’im alla Sua apparizione deve portare con Sè nuove leggi e quindi abrogare l’Islam. Ma questa non era l’opinione della gerarchia costituita. I suoi membri si aspettavano fiduciosamente che l’Avvento Promesso non avrebbe sostituito una rivelazione più nuova e più ricca alla vecchia e che avrebbe invece appoggiato e rafforzato il sistema di cui essi erano i funzionari. Esso avrebbe incalcolabilmente accresciuto il loro prestigio personale, esteso la loro autoritá tra tutte le nazioni e conquistato loro l’omaggio riluttante ma totale del genere umano.
Il Báb, quando rivelò il Suo Bayán, proclamò un nuovo codice di leggi religiose e con i precetti e con l’esempio dette avvio a una profonda riforma morale e spirituale. I sacerdoti immediatamente fiutarono un pericolo mortale, videro il loro monopolio scardinato, le loro ambizioni minacciate, la loro vita e la loro condotta messe alla gogna. Si sollevarono contro di Lui con bigotta indignazione, dichiarando davanti allo Sciá e al popolo che quel villano rifatto era un nemico dell’onesta cultura, un sovvertitore dell’Islam, un traditore di Muhammad e un pericolo non solo per la santa Chiesa, ma anche per l’ordine sociale e lo Stato stesso.
Il motivo per cui il Báb venne respinto e perseguitato fu in sostanza lo stesso per cui era stato respinto e perseguitato il Cristo. Se Gesù non avesse portato un Nuovo Libro, se non avesse solo ribadito i principi spirituali insegnati da Mosé ma avesse anche continuato le leggi e le regole di Mosé, avrebbe potuto come semplice riformatore morale sfuggire alla vendetta degli Scribi e dei Farisei. Ma sostenere che una qualsiasi parte della legge mosaica, anche semplicemente ordinanze materiali come quelle relative al divorzio e all’osservanza del sabato, potessero essere alterate da un predicatore laico del villaggio di Nazareth – questo significava minacciare gli interessi degli Scribi e dei Farisei stessi e, poiché essi erano i rappresentanti di Mosè e di Dio, era una bestemmia contro l’Altissimo. Non appena la posizione di Gesù fu compresa, le persecuzioni ebbero inizio. Poiché Egli Si rifiutò di desistere, fu messo a morte.
Per ragioni esattamente parallele, il Báb fu sin dall’inizio osteggiato dagli interessi costituiti della chiesa dominante quale estirpatore della Fede. Eppure, perfino in quel paese oscuro e fanatico, per i mullá (come per gli Scribi in Palestina diciotto secoli prima) non fu molto facile scovare un pretesto plausibile per distruggere Colui che essi consideravano loro nemico.
La sola testimonianza conosciuta comprovante che il Báb sia stato visto da un europeo appartiene al periodo della Sua persecuzione, quando un medico inglese residente a Tabriz, il dottor Cormick, fu invitato dalle autoritá persiane a pronunziarsi sulle Sue condizioni mentali. La lettera del dottore, indirizzata a un collega di una missione americana in Persia, è riportata nel “Materials for the Study of the Bábì Religion” del Professor E. G. Browne. “Mi chiede”, scrive il dottore, “alcuni particolari sul mio colloquio con il fondatore della setta nota come Bábì. Durante questo colloquio non è emerso nulla d’importante, perché il Báb sapeva che io ero stato mandato con altri due medici persiani per vedere se egli era sano di mente o semplicemente pazzo, onde decidere sulla questione se dovesse essere messo a morte oppure no. Sapendo questo, era restio a rispondere alle domande che gli facevamo. Ad ogni quesito si limitò a guardarci con uno sguardo mite, cantando con voce bassa e melodiosa alcuni inni, suppongo. Erano presenti anche altri due siyyid, suoi intimi amici, che furono in seguito messi a morte con lui, oltre a un paio di funzionari governativi. Si degnò di rispondermi solo quando gli dissi che non ero musulmano e desideravo conoscere qualcosa della sua religione, poiché avrei potuto forse essere propenso ad accettarla. Mi guardò molto intensamente quando dissi questo e rispose che non aveva dubbi che tutti gli Europei si sarebbero convertiti alla sua religione. La nostra relazione allo Sciá in quella circostanza mirava a risparmiargli la vita. Egli fu messo a morte qualche tempo dopo per ordine dell’Amì’r-Nizám, Mìrzá Taqì Khán. In base alla nostra relazione ricevette solamente la fustigazione, operazione durante la quale un farrásh, con o senza intenzione, lo colpi in faccia con il bastone destinato ai piedi, il che gli produsse una grande ferita e gli fece gonfiare il viso. Quando gli fu chiesto se dovessero condurgli un chirurgo persiano per curarlo, egli espresse il desiderio che fossi chiamato io e pertanto lo curai per un po’ di giorni, ma nei colloqui che ne seguirono non riuscii mai ad ottenere che conversasse confidenzialmente con me, perché, trattandosi di un prigioniero, erano sempre presenti uomini del governo. Era un uomo molto mite e dall’aspetto delicato, piuttosto piccolo di statura e molto chiaro per essere un persiano, la sua voce era morbida e melodiosa e mi colpi molto. Essendo un Siyyid, indossava l’abito di quella setta, come i suoi due compagni. In realtá tutto il suo aspetto e il suo portamento contribuivano a ben disporre in suo favore. Della sua dottrina non sentii nulla dalle sue labbra, ma ebbi l’impressione che nella sua religione esista una certa apertura verso il Cristianesimo. Alcuni falegnami armeni mandati a eseguire certe riparazioni nella sua prigione, lo videro leggere la Bibbia ed egli non si dette pena di nasconderlo, ma al contrario ne parlò. Sicuramente il fanatismo musulmano nei confronti dei Cristiani non esiste nella sua religione, né vi è quella restrizione per le donne che ora esiste”.
Questa fu l’impressione che un Inglese colto ebbe del Báb. E per quanto l’influenza del Suo carattere e dei Suoi insegnamenti si sia da allora diffusa in Occidente, non rimane alcun’altra testimonianza comprovante che Egli sia stato osservato o visto da occhi europei.
Le Sue qualitá erano cosi rare nella loro nobiltá e bellezza, la Sua personalitá così gentile eppure cosi vigorosa e il Suo fascino naturale era combinato con tanto tatto e giudizio, che dopo la Sua Dichiarazione Egli divenne rapidamente un personaggio molto popolare in Persia. Conquistava quasi tutti coloro con cui veniva in contatto di persona, spesso convertendo i carcerieri alla Sua fede e tramutando i malevoli in amici e ammiratori.
Mettere a tacere un tale uomo senza incorrere in qualche modo nell’odio pubblico non era molto facile nemmeno nella Persia della metá del secolo scorso. Ma con i seguaci del Báb il problema era diverso.
I mullá non incontrarono in questo caso alcun motivo d’indugio e trovarono ben poche necessitá di ricorrere a macchinazioni. Il fanatismo dei musulmani, dallo Sciá in giù, poteva essere prontamente aizzato contro qualsiasi evento religioso. I Báb potevano essere accusati di slealtá verso lo Sciá e oscuri moventi politici potevano essere attribuiti alle loro attivitá. Inoltre i seguaci del Báb erano giá numerosi; molti di essi erano benestanti, alcuni ricchi e, tra questi, alcuni avevano possedimenti che avidi vicini potevano essere istigati a desiderare. Facendo leva sui timori delle autoritá e sulle basse passioni nazionali del fanatismo e della cupidigia, i mullá inaugurarono una campagna di oltraggi e di spoliazioni che sostennero con implacabile ferocia finché non ritennero d’aver raggiunto in pieno il loro scopo.
Molte delle vicende di quest’infelice storia sono riferite da Nabil nel suo racconto e tra queste gli avvenimenti del Mázindarán, di Nayrìz e Zanján emergono per l’eroismo degli atti compiuti dai Bábì messi alle strette. In queste tre occasioni alcuni Báb, spinti alla disperazione, si allontanarono di concerto dalle loro case rifugiandosi in un luogo prescelto e, costruitesi attorno opere di difesa, affrontarono con le armi ulteriori attacchi. Per qualsiasi testimone imparziale era evidente che le asserzioni dei mullá di un loro movente politico erano false. I Báb si mostrarono sempre pronti davanti alla promessa che non sarebbero più stati molestati per la loro fede religiosa a ritornare pacificamente alle loro occupazioni civili. Nabil sottolinea la loro cura nell’astenersi da ogni aggressione. Essi combattevano per la vita con destrezza e forza risoluta; ma non attaccavano. Anche nel mezzo di una feroce battaglia non si accaparravano profitti e non tiravano un solo colpo che non fosse necessario.
Nel “Traveller’s Narrative”, è citato il seguente giudizio di ‘Abdu’l-Bahá sull’aspetto morale della loro azione:
“Il ministro (Mirzá Taqì Khán), del tutto arbitrariamente, senza ricevere istruzioni nè chiedere permessi, diramò l’ordine di punire e castigare i Báb. Governatori e magistrati cercavano un pretesto per accumulare ricchezze, e i funzionari un mezzo per acquisire profitti; celebri dottori dall’alto dei loro pulpiti incitavano il popolo a fare una strage; le forze della legge religiosa e civile facevano lega e lottavano per sradicare e distruggere questa gente. Ora questa gente non aveva ancora acquistato la conoscenza giusta e necessaria dei princìpi fondamentali e delle dottrine celate degli insegnamenti del Báb e non conosceva i propri doveri. Le sue concezioni e idee erano formulate alla vecchia maniera e la loro condotta e il loro comportamento erano in conformitá con l’antico uso. La via d’accesso al Báb era, inoltre, chiusa e la fiamma dell’afflizione ardeva palesemente dappertutto. Per decreto dei più celebri dottori, il governo e, in veritá, anche la gente comune avevano inaugurato in ogni luogo, con forza irresistibile, una campagna di rapine e di saccheggi e si erano dati a punire e torturare, uccidere e depredare, per spegnere questo fuoco e far languire queste povere anime. Nelle cittá dove ve n’era solo un numero limitato, furono passati tutti per la spada a mani legate, mentre nelle cittá dov’erano numerosi, si sollevarono per difendersi secondo le loro antiche credenze, poiché non potevano indagare quale fosse il loro dovere e tutte le porte erano chiuse”.
Bahá’u’lláh, nel proclamare alcuni anni più tardi la Sua Missione, non lasciò adito a incertezze sulla legge della Sua Dispensazione per una simile situazione critica, quando affermò: “È meglio essere uccisi che uccidere”.
Ogni resistenza che i Báb fecero, qui o altrove, si dimostrò vana. Essi furono sopraffatti dal numero. Il Báb stesso fu strappato dalla Sua cella e giustiziato. Dei Suoi principali discepoli che confessarono la loro fede in Lui, neppur uno fu lasciato vivo tranne Bahá’u’lláh, che con la Sua famiglia e un pugno di devoti seguaci fu cacciato, privo d’ogni mezzo, esule e prigioniero in una terra straniera.
Ma il fuoco, benché coperto di cenere, non era spento. Esso ardeva nel cuore degli esiliati che viaggiando lo portarono da paese a paese. Anche nella sua patria, la Persia, esso era penetrato troppo profondamente per poter essere spento dalla violenza fisica e ardeva ancora nel cuore della gente e gli occorreva solo un soffio dello spirito per poter divampare in un incendio divoratore.
La Seconda e Più Grande Manifestazione di Dio fu proclamata, in conformitá con la profezia del Báb, alla data che Egli aveva predetto. Nove anni dopo l’inizio della Dispensazione Báb – cioè nel 1853 – Bahá’u’lláh, in alcune delle Sue odi, alluse alla Sua identitá e alla Sua Missione e dieci anni più tardi, mentre Si trovava a Baghdád, dichiarò ai Suoi compagni di essere il Promesso.
Allora il grande Movimento per cui il Báb aveva preparato la via cominciò a mostrare tutta la portata e lo splendore della sua potenza. Sebbene Bahá’u’lláh sia vissuto e morto esule e prigioniero e sia stato conosciuto da pochi Europei, le Sue epistole proclamanti il nuovo Avvento furono invitate ai grandi governanti di entrambi gli emisferi, dallo Sciá di Persia al Papa e al Presidente degli Stati Uniti. Dopo il Suo trapasso, Suo figlio ‘Abdu’l-Bahá portò Egli stesso la buona novella in Egitto e in ampie zone del mondo occidentale. ‘Abdu’l-Bahá visitò Inghilterra, Francia, Svizzera, Germania e America, annunziando in ogni luogo che ancora una volta i cieli si erano aperti e una nuova Dispensazione era giunta a benedire i figli degli uomini. Egli morì nel novembre 1921; e oggi il fuoco, che una volta sembrava estinto per sempre, arde ancora in ogni parte della Persia, si è insediato nel continente americano e ha preso possesso di ogni paese nel mondo. Attorno ai sacri scritti di Bahá’u’lléh e alle autorevoli spiegazioni di ‘Abdu’l-Bahá sta crescendo una gran quantitá di scritti di commento o di testimonianza. I principi umanitari e spirituali, enunciati decenni or sono nel più oscuro Oriente da Bahá’u’lláh e da Lui fusi in uno schema coerente, vengono accettati l’uno dopo l’altro da un mondo inconsapevole della loro fonte come segni di progresso e civiltá. E la sensazione che l’umanitá ha rotto con il passato e che le vecchie norme non possono guidarla attraverso gl’imprevisti del giorno d’oggi, ha colmato d’incertezza e di sgomento tutti gli uomini riflessivi tranne coloro che hanno imparato a trovare nella storia di Bah6’u’lláh il significato di tutti i prodigi e i portenti del nostro tempo.
Quasi tre generazioni sono passate dall’inizio del Movimento. Tutti i suoi primi seguaci scampati alla spada e alle torture sono da lungo tempo trapassati per morte naturale. La porta dell’informazione contemporanea per quanto riguarda i suoi due grandi Maestri e i loro eroici discepoli è chiusa per sempre. La cronaca di Nabil quale accurata raccolta di fatti eseguita nell’interesse della veritá e completata durante la vita di Bahá’u’lláh ha ora un valore unico. L’autore aveva tredici anni quando il Báb Si dichiarò, essendo nato nel villaggio di Zarand in Persia il diciottesimo giorno di Safar, 1247 A.H., per tutta la vita fu vicino agli esponenti della Causa. Benché a quei tempi fosse solo un ragazzo, stava accingendosi a partire per Shaykh Tabarsi e a unirsi all’esercito di Mullá Husayn, quando la notizia dello sleale massacro dei Báb rese vano il suo progetto. Nella sua narrazione afferma che incontrò, a Tihrán, Hájì Mìrzá Siyyid ‘Alì, fratello della madre del Báb, che era appena tornato da una visita al Báb nella fortezza di Chihrìq; e per lunghi anni fu grande amico del segretario del Báb, Mìrzá Ahmad,
Fu ammesso alla presenza di Bahá’u’lláh a Kirmánsháh e a Tihrén prima dell’epoca dell’esilio in Iraq e dopo fu al Suo seguito a Baghdad e Adrianopoli e anche nella cittá-prigione di ‘Akká. Fu mandato più d’una volta in missione in Persia per promuovere la Causa e incoraggiare i credenti dispersi e perseguitati e si trovava ad ‘Akká quando Bahá’u’lláh trapassò nel 1892 A.D. Il modo in cui mori è patetico e doloroso: fu cosi terribilmente afflitto dalla morte del Grande Amato che, sopraffatto dal dolore, si annegò in mare e il suo corpo fu rinvenuto sospinto a riva vicino alla cittá di ‘Akká.
Quando, nel 1888, dette inizio alla sua cronaca, ebbe l’assistenza personale di Mìrzá Mùsá, fratello di Bahá’u’lláh. La terminò in circa un anno e mezzo e parti del manoscritto furono rivedute e approvate, alcune da Bahá’u’lláh e altre da ‘Abdu’l-Bahá.
L’opera completa narra la storia del Movimento fino alla morte di Bahá’u’lláh nel 1892.
La prima metá di questa narrazione, che si chiude con l’espulsione di Bahá’u’lláh dalla Persia, è contenuta in questo volume. La sua importanza è evidente: essa verrá letta non tanto per i commoventi passi d’azione che contiene e nemmeno per i molti suoi quadri d’eroismo e di fede incrollabile, quanto per il significato insito in quegli eventi di cui dá una così eccezionale documentazione.
LO STATO DI DECADENZA DELLA PERSIA
ALLA METÁ DEL DICIANNOVESIMO SECOLO
A. I SOVRANI QÁJÁR
” In teoria il re può fare ciò che gli pare; la sua parola è legge. Il detto che “la legge dei Medi e dei Persiani non cambia” era semplicemente un’antica perifrasi per indicare l’assolutismo del sovrano. Egli nomina e può destituire tutti i ministri, i funzionari, gli ufficiali e i giudici. Sulla sua famiglia, sul suo seguito e sui funzionari civili e militari al suo servizio, ha potere di vita e di morte senza dover ricorrere ad alcun tribunale. Le proprietá di queste persone, quando cadano in disgrazia o siano giustiziate, spettano a lui. Il diritto di condannare a morte, in ogni caso, spetta solo a lui, ma può essere delegato a governatori o delegati. Ogni proprietá, che non sia stata precedentemente concessa dalla corona o acquistata – ogni proprietá, in effetti, a cui non possa essere attribuito un titolo legale – appartiene a lui, che ne può disporre a suo piacere. Tutti i diritti e i privilegi, come l’esecuzione di lavori pubblici, lo sfruttamento delle miniere, l’istituzione di telegrafi, strade, ferrovie, tranvie ecc,, lo sfruttamento in sostanza di qualsiasi risorsa del paese spettano a lui e da lui devono essere acquistati prima che possano essere rilevati da altri. Nella sua persona sono concentrate le tre funzioni del governo, legislativa, esecutiva e giudiziaria. Nessun obbligo gli è imposto, tranne l’osservanza esteriore delle forme della religione nazionale. Egli è il perno intorno al quale ruota l’intera macchina della vita pubblica.
“Tale è in teoria, e fu fino a tempi recenti in pratica, il carattere della monarchia persiana, che non ha mai rinunciato apertamente nemmeno a una di queste grandi pretese. Il linguaggio con cui lo Sciá si rivolge ai suoi sudditi ed essi si rivolgono a lui ricorda le parole altezzose che un Artaserse o un Dario rivolgevano ai milioni di tributari e che si possono tuttora leggere nei documenti incisi sulle pareti rupestri e sulle tombe. Egli è ancora lo Sháhinsháh, o Re dei Re; lo Zillu’lláh, o Ombra di Dio; il Qibliy-i-‘Alam, o Centro dell’Universo; “Eccelso come il pianeta Saturno; Pozzo di Scienza; Sentiero del Cielo; Sublime Sovrano, il cui stendardo è il Sole, il cui splendore è quello del Firmamento; Monarca di eserciti numerosi come le stelle”. Il suddito persiano sosterrebbe ancora il precetto di Sa’dì: “Il vizio approvato dal re diviene una virtù; cercare un consiglio contrario significa macchiarsi le mani del proprio sangue”. Il passar del tempo non gli ha imposto né un consiglio religioso né un consiglio secolare, né ‘ulamá’ né senato. Le istituzioni elettive o rappresentative non hanno ancora intromesso le loro irriverenti caratteristiche. Non esiste alcun controllo scritto sulle prerogative regali.
” . . . Tale è l’alone di divinitá che avvolge il trono in Persia, che non solo lo Sciá non partecipa mai a banchetti ufficiali né mangia a tavola con i suoi cittadini, con l’eccezione di un solo banchetto offerto ai suoi principali parenti maschi a Naw-Rùz, ma l’atteggiamento e il linguaggio usati verso di lui perfino dai suoi ministri confidenziali sono improntati a un’obbedienza e un’adulazione servili. “Possa io essere sacrificato per te, Asilo dell’Universo”, è un modo comune di rivolgersi a lui adottato anche da sudditi di altissimo rango. Nel suo ambiente non c’è nessuno che gli dica la veritá o che gli dia un consiglio spassionato. Gli ambasciatori stranieri sono probabilmente l’unica fonte da cui egli apprenda i fatti come sono o riceva consigli franchi, benché interessati. Anche se ha le migliori intenzioni del mondo di intraprendere grandi piani per migliorare il suo paese, ha poco o punto controllo sull’esecuzione di un’impresa una volta che questa sia uscita dalle sue mani e sia divenuta il passatempo di funzionari corrotti ed egoisti. Metá del danaro assegnato con il suo consenso non arriva mai a destinazione, ma resta attaccata a ciascuna tasca con cui una professionale ingegnositá lo mette in contatto; metá degli schemi autorizzati da lui non sono mai portati neppure vicino all’attuazione, mentre il ministro o il funzionario incaricato confida che la capricciosa smemoratezza del sovrano faccia passare inosservata la sua trascuratezza nel dovere.
” . . . Solo un secolo fa vigevano il sistema odioso di accecare i possibili aspiranti al trono e l’uso di selvagge mutilazioni e di prigionie a vita, di stragi inutili e sistematici spargimenti di sangue. Si faceva tanto presto a cadere in disgrazia quanto a far carriera e la morte era un fatto spesso concomitante alla disgrazia.
” . . . Fath-‘Alf Sháh . . . e i suoi successori dopo di lui sono stati cosi straordinariamente prolifici di figli maschi, che la continuitá della dinastia è stata garantita; e non vi è probabilmente una famiglia regnante nel mondo che nel giro di cent’anni sia cresciuta fino a raggiungere dimensioni cosi grandi come la casa reale di Persia… E lo Sciá, benché sia innegabilmente un uomo di famiglia, non può essere paragonato al bisnonno, Fath-‘Alì Sháh, né per il numero delle mogli né per la vastitá della progenie. All’alta opinione che i più hanno sulle capacitá domestiche di quel monarca, immagino, si devono attribuire le divergenti valutazioni, che si trovano nelle opere sulla Persia, del numero delle sue concubine e dei suoi figli. Il colonnello Drouville, nel 1813, gli attribuisce 700 mogli, 64 figli e 125 figlie. Il colonnello Stuart, che era in Persia l’anno successivo alla morte di Fath-‘Ali Sháh, gli attribuisce 1000 mogli e 105 figli… Madame Dieulafoy cita 5000 discendenti e ne dá anche i nomi, ma si riferisce a un’epoca posteriore di cinquant’anni (e per questo la sua valutazione ha un’aria di maggiore credibilitá)… La stima che appare nel Násikhu’t-Tavárikh, grande opera moderna di storia persiana, fissa il numero delle mogli di Fath-‘Alì Sháh a oltre 1000 e quello dei suoi figli a 260, di cui 110 sopravvissero al padre. Da qui il familiare proverbio persiano: “Cammelli, pulci e principi esistono dappertutto”. … Nessuna famiglia reale ha mai illustrato in modo più esemplare la promessa delle scritture:
“Invece dei tuoi padri avrai figli, che tu possa far principi in ogni terra”; infatti non c’erano governatorati o posti lucrativi in Persia che non fossero occupati da un membro di questo alveare di principotti; e fino ad oggi la sterminata genìa di Sháhzádih, o discendenti di re, è una vera calamitá per il paese, anche se ora molti di questi sfortunati rampolli regali, che consumano una grande parte del reddito statale in indennitá annuali e pensioni, occupano posizioni molto umili come quelle di impiegati del telegrafo, segretari ecc. Fraser tratteggiò un quadro vivo del tormento che comportava per il paese cinquant’anni fa (1842) questa ” genìa di fannulloni regali” i quali occupavano i posti di comando non solo in ogni provincia, ma anche in ogni bulùk o distretto, cittá e borgata; ciascuno dei quali manteneva una corte e un grande harem e che devastavano il paese come uno sciame di locuste… Fraser, passando per l’Adhirbáyján nel 1834 e osservando i disastrosi risultati del sistema seguito da Fatb-‘Alf Sháh di distribuire la sua colossale progenie di sesso maschile in ogni posto del governo in tutto il regno, osservò: “La più ovvia conseguenza di questo stato di cose è un odio profondo e universale per la famiglia Qájdr, che è sentimento comune in ogni cuore e tema d’ogni lingua”.
” … Come, nel corso dei suoi [di Násiri’d-Dìn Sháh] viaggi europei, ha raccolto un gran numero di quelle che apparivano, a una mente
orientale, meravigliose raritá, ma che si sono accatastate nei vari appartamenti del palazzo, o che sono state messe da parte e dimenticate; cosi nel più vasto ambito della politica e dell’amministrazione pubblica continuamente intraprende e cerca d’imporre nuovi schemi o ritrovati che, quando il suo capriccio è stato soddisfatto, sono accantonati o lasciati morire. Una settimana è il gas, un’altra è la luce elettrica. Ora è uno staff universitario, in un’altra occasione, un ospedale militare. Oggi è un’uniforme russa; ieri era una nave da guerra tedesca per il Golfo Persico. Un nuovo decreto per l’esercito è emanato quest’anno; un nuovo codice di leggi è promesso per il prossimo. Da questi brillanti schemi non viene fuori nulla e i ripostigli del palazzo sono tanto pieni di meccanismi rotti e di bric-a-brac scartati quanto i casellari degli uffici governativi lo sono di riforme abortive e di progetti nati morti.
” … In una camera al piano superiore dello stesso padiglione, Mirzá Abu’l-Qásim, il Qá’im-Maqám, o gran visir di Muhammad Sháh (padre dell’attuale monarca), fu strangolato nel 1835 per ordine del suo regale padrone, il quale così segui l’esempio datogli dal suo predecessore e ne dette uno egli stesso che fu doverosamente seguito da suo figlio. Dev’essere raro nella storia trovare l’uno dopo l’altro tre sovrani, i quali abbiano messo a morte, solo per motivi di gelosia, i tre ministri che li avevano portati al trono o che occupavano al momento della caduta la più alta carica dello Stato. Questo è il triplice vanto di Fath-‘Alì, Muhammad e Násiri’d-Dìn Sháh”.
B. IL GOVERNO
” In un paese così arretrato nel progresso costituzionale, cosi privo di forme, di statuti e di costituzioni e cosi fermamente stereotipato nelle tradizioni immemorabili dell’Oriente, l’elemento personale. come ci si può aspettare, ha un netto predominio; e il governo della Persia è poco meno che un esercizio arbitrario di autoritá da parte di una serie di unitá in una scala che discende dal sovrano fino al capo del più umile villaggio. Il solo controllo che agisca sui funzionari di grado inferiore è il timore dei superiori, che di solito si può trovare il modo di mitigare; su quelli di grado più alto, il timore del sovrano, il quale non è sempre chiuso a simili metodi di pacificazione; e sul sovrano stesso il timore dell’opinione non dei nativi, ma dei forestieri, rappresentati dall’ostile critica della stampa europea… Lo Sciá, in veritá, può essere considerato in questo momento forse il miglior esemplare esistente di despota moderato; poiché entro i limiti indicati è praticamente irresponsabile e onnipotente. Egli ha potere assoluto sulla vita e sulle proprietá di tutti i suoi sudditi, I suoi figli non hanno alcun’autoritá indipendente e possono essere ridotti all’impotenza e all’elemosina in un batter d’occhio. I ministri sono inalzati e degradati secondo il volere regale. Il sovrano è l’unico che abbia il potere esecutivo e tutti i funzionari sono suoi delegati. Non esistono tribunali civili, che ne controllino o modifichino le prerogative.
” … Sul carattere generale e sulle qualitá dei ministri della corte persiana, Sir J. Malcolm, agl’inizi del secolo, scrisse nella sua storia ciò che segue: “I ministri e i principali funzionari della corte sono quasi sempre uomini dai modi raffinati, molto qualificati nei problemi dei loro rispettivi dicasteri, dalla conversazione piacevole, dal temperamento sottomesso e dallo spirito di osservazione molto acuto; ma queste qualitá gradevoli e utili sono, in generale, tutto ciò che essi posseggono. Né ci si deve aspettare virtù o conoscenze liberali in uomini la cui vita è sprecata nel badare alle forme; i cui mezzi di sussistenza derivano dalle fonti più corrotte; la cui occupazione consiste nel tessere intrighi che hanno sempre lo stesso fine: salvare se stessi o rovinare altri; i quali non possono, senza pericolo, parlare altro linguaggio che quello dell’adulazione e della falsitá; e che sono, in breve, condannati dalla loro condizione a essere venali, astuti e falsi, Ci sono stati, senza dubbio, molti ministri di Persia che sarebbe ingiusto classificare sotto questa descrizione generale; ma anche coloro che maggiormente si sono distinti per virtù e talenti sono stati costretti entro certi limiti ad adattare i loro princìpi al loro rango; e, tranne quando la fiducia del sovrano li ha posti al di lá del timore di rivali, la necessitá li ha costretti a praticare un servilismo e un’ipocrisia ben diversi dalla veritá e dall’integritá, le sole qualitá che possano costituire una pretesa al rispetto che tutti sono disposti a concedere agli uomini buoni e grandi”. Queste osservazioni sono contraddistinte dall’intuizione e dalla giustizia caratteristiche del loro illustre autore, e c’è da temere che in larga misura siano valide tanto per la presente quanto per la passata generazione”.
C. IL Popolo
” … Tratterò ora quella che è la caratteristica basilare e distintiva dell’amministrazione iraniana. Si può dire che il governo, anzi, la vita stessa della nazione, consiste per lo più in uno scambio di doni. Nel suo aspetto sociale si potrebbe supporre che questa pratica comprovi i sentimenti generosi di un amabile popolo; benché anche da questo punto di vista vi siano in essa lati freddi e sgradevoli come quando, per esempio, mentre vi rallegrate in cuor vostro per aver ricevuto un dono, trovate che dovete non solo contraccambiare facendo al donatore un regalo di costo equivalente, ma anche ricompensare generosamente il latore del dono (per il quale la vostra ricompensa è molto verosimilmente l’unico mezzo riconosciuto di sussistenza) in misura proporzionale al valore pecuniario del dono stesso. Nel suo aspetto politico, l’uso di far doni, benché consacrato nelle adamantine tradizioni dell’Oriente, è un sinonimo del sistema descritto altrove con nomi meno gradevoli. È il sistema secondo il quale la Persia è stata governata per secoli e il cui mantenimento oppone una robusta barriera a qualsiasi reale riforma. Dallo Sciá in giù, non v’è funzionario che non sia disponibile a regali, non v’è posto che non sia conferito in cambio di un dono, non v’è rendita che non sia stata accumulata per mezzo di doni ricevuti. Salvo pochissime eccezioni, tutti i componenti della gerarchia ufficiale sopra menzionata, hanno semplicemente comperato la propria posizione con un regalo pecuniario offerto o allo Sciá o a un ministro o al governatore superiore dal quale sono stati nominati. Se ci sono molti candidati a un posto, con ogni probabilitá vincerá quello che fa la migliore offerta.
” … Il “madákhil” è un’istituzione nazionale mantenuta viva in Persia, la riscossione della quale, in una miriade di forme differenti, la cui ingegnositá è pari solo alla loro molteplicitá, è per i Persiani il supremo interesse e la somma delizia di tutta una vita, Questa straordinaria parola, di cui Watson dice che non v’è un preciso equivalente in inglese, può essere variamente tradotta come commissione, gratifica, regalia, provvigione, ruberia, lucro, secondo il contesto del discorso in cui è usata. In parole povere, essa indica quel tanto di vantaggio personale, usualmente espresso in moneta, che può essere estorto da qualsiasi transazione. Un negoziato, in cui due parti siano coinvolte come donatore e beneficiano, come superiore e subordinato, o anche come agenti contraenti alla pari, non può aver luogo in Persia senza che la parte che può essere presentata come autrice del favore o del servizio pretenda e riceva una definita ricompensa in denaro per quanto ha fatto o dato. Si può certo dire che la natura umana è la stessa in tutto il mondo; che un simile sistema esiste sotto un differente nome nel nostro o in altri paesi e che il critico sereno saluterá nel Persiano un uomo e un fratello. Entro certi limiti ciò è vero. Ma in nessun paese del mondo che ho visitato o di cui ho sentito parlare, il sistema è tanto aperto, spudorato o universale come in Persia. Così, lungi dall’essere limitato alla sfera dell’economia domestica o alle transazioni commerciali, esso permea ogni passo e ispira la maggior parte delle azioni della vita. Per suo effetto, si può dire che in Persia la generositá e i favori gratuiti sono stati cancellati dal novero delle virtù sociali e la cupidigia è stata elevata a principio informatore della condotta umana… Pertanto si stabilisce una progressione aritmetica di ruberie dal sovrano al suddito, per cui ciascuna unitá della scala discendente prende la propria ricompensa dall’unitá successiva di rango inferiore, e lo sventurato contadino è la vittima finale. Non c’è da sorprendersi, in queste condizioni, se le cariche sono la via comune verso la ricchezza e se sono frequenti i casi in cui uomini, partiti dal nulla si trovano ad abitare in magnifiche case, circondati da folle di dipendenti e a vivere da principi. “Fa ciò che puoi finché puoi” è la regola che molti uomini si prefiggono entrando nella vita pubblica. E lo spirito popolare non s’indigna per questo comportamento; mentre il giudizio su chi, avendone l’opportunitá, non riesce a riempirsi le tasche, è tutt’altro che lusinghiero per il suo valore, Nessuno rivolge un solo pensiero alle vittime da cui, in ultima analisi, è stato ricavato il materiale per questi successivi “madákhil” e dal sudore delle cui rassegnate fronti è stata spremuta la ricchezza che viene dissipata in lussuose case di campagna, oggetti rari provenienti dall’Europa ed enormi seguiti.
” … Tra le caratteristiche della vita pubblica in Persia che più rapidamente colpiscono l’attenzione del forestiero, e che indirettamente derivano dalle stesse condizioni, vi è l’enorme numero di servitori e dipendenti che brulicano attorno a ministri e funzionari d’ogni sorta. Nel caso di un funzionario d’alto rango o d’elevata posizione sociale, il loro numero varia tra 50 e 500. Benjamin dice che il Primo Ministro ai suoi tempi ne manteneva 3000. Ora, la teoria dell’etichetta sociale e cerimoniale diffusa in Persia, e invero in tutto l’Oriente, è entro certi limiti responsabile di questo fenomeno, essendo l’importanza personale, in gran parte, valutata dal pubblico sfoggio che una persona può fare e dalla schiera di servi che può mettere in mostra in certe occasioni, Ma la radice del male è l’istituzione del “madákhil” e delle illecite ruberie. Se governatori e ministri fossero tenuti a pagare il salario a tutta questa ciurma di servi, i loro ranghi si assottiglierebbero rapidamente. Il grosso di questa schiera non è pagata; essi si attaccano al padrone per le occasioni di estorsione che quel rapporto offre loro e prosperano e s’ingrassano sulla depredazione. Si può subito capire che salasso rappresenti questo branco di sanguisughe per le risorse del paese. Essi sono prototipi di lavoratori improduttivi, i quali assorbono ma non producono mai beni; e la loro esistenza è poco meno di una calamitá nazionale… È un punto fondamentale dell’etichetta persiana portare con sé, quando si va a fare una visita, il maggior numero possibile di persone della casa, a cavallo o a piedi, il numero di questo seguito essendo considerato un’indicazione del rango del padrone “.
D. L’ORDINE ECCLESIASTICO
“Mirabilmente adattato tanto al clima, quanto al carattere e alle occupazioni di quei paesi sui quali ha imposto la sua presa adamantina, l’Islám domina completamente i suoi seguaci dalla culla alla tomba. Per loro, esso non è solo religione: è governo, filosofia e scienza. La concezione musulmana non è tanto la concezione di una chiesa di stato quanto, se mi si consente l’espressione, di uno stato-chiesa. L’impalcatura sulla quale la societá viene modellata non è di fabbricazione civile, ma ecclesiastica; e, avviluppato in questo credo superbo, anche se paralizzante, il musulmano vive in una soddisfatta resa d’ogni volontá, ritiene suo massimo dovere adorare Dio e costringere a far ciò coloro che non l’adorano nello spirito o, se questo è impossibile, disprezzare costoro e infine muore con una speranza sicura e certa del Paradiso.
” … Questi Siyyid, o discendenti del Profeta, sono una molestia intollerabile per il paese; essi traggono dal loro presunto lignaggio e dalla prerogativa del turbante verde il diritto a un’indipendenza e a un’insolenza di comportamento, che tanto i loro concittadini quanto i forestieri devono subire.
cortile Cortile dove fù martirizzato il Bàb
villaggio Il villaggio di Badasht
casa tahirih a qazvin casa tahirih a qazvin2 Casa in cui abitò Tahirih a Qazvin